In un’epoca in cui il benessere mentale viene giustamente messo al centro del dibattito pubblico, appare sempre più evidente un paradosso tanto sottile quanto preoccupante: i pazienti sono sottoposti a test, valutazioni, diagnosi e protocolli standardizzati, mentre chi somministra questi strumenti – lo psicologo – raramente viene valutato a sua volta. Nessuno mette in discussione la necessità di avere psicologi, ma è lecito chiedersi: chi controlla i controllori?
Chi esercita una professione sanitaria, in particolare in ambito psichico, detiene un potere enorme: penetra nella sfera intima delle persone, interpreta comportamenti e pensieri, formula diagnosi, influenza decisioni, talvolta indirizza intere traiettorie di vita. In molte altre professioni mediche, questo potere è bilanciato da un sistema rigido di verifiche, certificazioni e valutazioni periodiche. Nella medicina generale, ad esempio, i concetti di “fitness to practise” o “idoneità psicofisica” sono ormai standardizzati: medici, infermieri, tecnici, persino poliziotti o controllori di volo vengono sottoposti a controlli psicologici obbligatori, soprattutto in situazioni critiche. Perché questo principio non viene applicato anche a chi lavora ogni giorno con la fragilità mentale degli altri?
In Italia e in molti paesi europei, lo psicologo, una volta iscritto all’albo, non è tenuto a sottoporsi a valutazioni periodiche del proprio equilibrio psichico. Viene dato per scontato che chi studia la mente umana sia automaticamente in grado di gestire anche la propria. Ma è davvero così? La pratica clinica è emotivamente logorante, carica di responsabilità silenziose, attraversata da proiezioni, transfert, stress, solitudine, burn-out. Uno psicologo può essere brillante nelle teorie ma interiormente instabile, depresso, narcisista o completamente disallineato dai principi etici della professione. Può utilizzare test in modo improprio, diagnosticare patologie dove non ci sono, o peggio, creare dipendenza emotiva nel paziente. E tutto questo può accadere senza che nessuno se ne accorga, perché oggi non esistono meccanismi sistematici di controllo reale.
La questione non è se ci siano “psicologi pazzi”, ma se sia giusto continuare a ignorare che anche tra i professionisti della salute mentale esistano fragilità, distorsioni cognitive, instabilità emotive e veri e propri disturbi. Non basta affidarsi alla deontologia scritta o alla fiducia cieca nell’istituzione. Sarebbe opportuno, e ormai necessario, istituire un sistema di valutazione simile a quello richiesto in ambiti sanitari ad alta responsabilità: esami psicometrici periodici, audit etici, colloqui di supervisione esterni e indipendenti. Strumenti già esistenti, usati in altri contesti professionali, potrebbero essere applicati anche in psicologia con grande beneficio per tutti.
Del resto, il paziente che si rivolge a uno psicologo lo fa in un momento di vulnerabilità. Non è un cliente qualsiasi, ma una persona fragile che cerca aiuto. È un dovere civile, oltre che professionale, garantire che chi offre aiuto sia effettivamente in grado di farlo, non solo sul piano teorico ma anche umano. È troppo rischioso lasciare che l’accesso alla psiche altrui sia un territorio libero da verifica, dove l’unico criterio di idoneità resta un’autocertificazione implicita.
Infine, c’è il tema tabù della salute mentale degli psicologi stessi. Nessuno ne parla, quasi fosse una colpa. Eppure sarebbe auspicabile che proprio questa categoria aprisse il dibattito, dimostrando che chiedere supporto o accettare una valutazione esterna non è un segno di debolezza, ma di professionalità e maturità. Uno psicologo che si sottopone regolarmente a supervisione o ad autoanalisi profonda è, in fondo, più credibile di uno che si crede infallibile per definizione.
Rendere obbligatorie le valutazioni psicologiche periodiche per gli psicologi, creare un sistema trasparente di aggiornamento e sorveglianza etica, aprire spazi di confronto e revisione tra pari: non è un atto di sfiducia verso la categoria, ma un atto di rispetto verso il paziente e verso la professione stessa. Chi si prende cura della mente degli altri, deve per primo prendersi cura della propria. Non per essere perfetto, ma per essere lucido, consapevole e responsabile. In fondo, come possiamo affidarci a chi predica equilibrio, se non sappiamo se lo possiede davvero?